giovedì 21 dicembre 2006

Comunista? Rifondazione…!

Ognuno racconta la storia della sua vita, io non faccio che trovar gente che me la racconta e io racconto a mia volta i fatti miei, tutti fanno così, questo è il modo in cui vanno le cose quando tutto è pericoloso.


Gertrude Stein



Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma.


Cesare Pavese



E leggendo voi che fate? Ve lo dico subito: respingete tutto ciò che non vi aggrada. Lo stesso ha già fatto l’autore.


Robert Musil


Dopo la grande e, al contempo, dannosa stagione degli anni Settanta – gli anni della contestazione giovanile – quando partecipare alla vita politica era un rito collettivo, una sorta d’iniziazione al grande ‘gioco’ della società, un ‘gioco’ dove in nome di ideali bella ma irrealizzabili si ammazzava senza tanta pietà, il partito era il punto di riferimento per molti, tanti cittadini, un centro di aggregazione per coloro che volevano contare (e non in senso carrieristico) qualcosa nella società. Nel corso degli anni i partiti italiani, più di qualunque altro sistema politico transnazionale, si sono trasformati in delle vere e proprie oligarchie, in dei clubs dove l’ingresso è riservato a soci fedeli, ortodossi e con la testa china e la schiena curva e ricurva.

Lanciando uno sguardo approfondito nella locale comunità, ci si accorge ben presto di come questo stato di cose sia ormai connaturato nel Dna dei dirigenti di tutti i partiti della nostra città. Chi più, chi meno, ma la generalità della politica sangiovannese rispecchia questo canceroso status quo, difficile da distruggere. Una democrazia, quella locale, in stato pietoso, comatoso. Una struttura partitica formata perlopiù da personaggi senza una adeguata preparazione politica e civile. Tanti ectoplasmi uniti da un fine comune: costruirsi fitte ragnatele di amicizie per poi…

Nella cronica stasi della politica locale, chi, a mio parere, avrebbe bisogno di una svolta davvero radicale, e senza nessun tipo di tentennamento, è il partito della Rifondazione Comunista, un partito che da anni (o secoli?) è rappresentato da facce che sembrano scolpite sulle rocce, un partito che volutamente fa fatica a rigenerarsi, a voltar pagina, a dare il via a quel tanto agognato (ma mai attuato) ricambio generazionale, un partito che nei suoi comunicati, nei suoi discorsi, nelle sue manifestazioni pubbliche ha delle difficoltà macroscopiche a sintonizzarsi con i desideri, le richieste (non quelle clientelari, però), i bisogni della gente, quella davvero disperata e bisognosa d’aiuto.

I vari Barbano, Capuano, Ciavarella, Gorgoglione (quest’ultimo ‘trombato’ a mille elezioni e mai stanco di presentarsi) e compagnia discorrendo hanno davvero stancato! Gente che non ha più stimoli, che ama stare sempre all’opposizione, che è brava a fare della retorica, ma che poi porta a casa pochi risultati. D’altronde basta dare un’occhiata al bottino e, soprattutto, al consenso: dire che è davvero scarso, significherebbe essere ciechi e buonisti!

Ma se lo saranno mai chiesti, gli amici comunisti, che la gente à stanca della solita tiritera, della solita zuppa, ormai insipida?

Ma se lo saranno mai chiesti, gli amici comunisti, che se si seguita di questo passo il partito va diritto alla distruzione?

Anziché pensare, segretario Barbano e compagni, alla formazione della ridicola e inconcludente associazione “Uniti a Sinistra”, succursale di quella esistente a livello nazionale, non sarebbe meglio dare una drastica spolverata al Partito della Rifondazione comunista?

Segretario Barbano, anziché lambiccarsi in elucubrazioni politiche che non le appartengono, non sarebbe più utile, una volta tanto, che si facesse, e definitivamente, da parte, dando spazio, magari, a chi è davvero in grado di imprimere la tanto agognata svolta?

Segretario Barbano, anziché esporre locandine e tazebao, che a volte sfiorano il ridicolo, con gli amici dei Verdi dove il rappresentante più noto è il ‘chitarrista’ Pazienza (che a parole sono per la tutela dell’ambiente e nei fatti sono tra i principali inquinatori dell’ambiente di San Giovanni), non sarebbe più opportuno ravvivare il povero consiglio comunale, un luogo dove la politica non si sa cosa sia, con delle proposte serie, costruttive e risolutive?

A cosa serve, ora, lamentarsi dei mastodontici errori di Mangiacotti, il Signor Sì, e della sua maggioranza che non convinceva, eufemisitcamnte parlando, sin dagli albori?

La coerenza, segretario Barbano, avrebbe voluto che il suo partito non facesse parte sin dall’inizio di questa scombiccherata coalizione: è facile, ora, scagliarsi contro il povero Signor Sì, che anziché preoccuparsi di governare questa disastrata città, pensa, piuttosto, a tranquillizzare gli uomini col saio, colpiti nei loro torbidi interessi. Il Signor Sì, che quando era all’opposizione si rifaceva a Pasolini, grande fustigatore dei vizi dei politici e della società italiana in generale, sembra diventato ora il Torquemada in versione paesana.

Tornando, però, ai disastri del partito della Rifondazione Comunista, di certo non ispira fiducia il cosiddetto vivaio comunista che si definisce “Stella Rossa 67”; un vivaio dove ragazzi e ragazzini credono ancora nel mito della falsa rivoluzione; un vivaio dove la pochezza intellettuale rasenta il nulla; un vivaio dove tra alcol, cannabis, pizze e panini strapaesani ci si dimentica spesso dell’obiettivo principale per il quale ci si aggrega: fare politica e crescere seguendo percorsi sani, concreti e realizzabili; un vivaio dove ragazzi e ragazzini credono che la proprietà privata sia un male assoluto; un vivaio dove ragazzi e ragazzini, più o meno sprovveduti, vengono falsamente indottrinati su cosa sia il bene e cosa sia il male.


Se questa sarà la futura classe dirigente della nostra città, converrà, allora, chiedere cittadinanza ad un’altra comunità…

I giovani: infelici e disperati

I ragazzi si spossano, si logorano, invecchiano, corrotti dai loro falsi amici. Quando la loro ribellione si esaurisce, come accade a tutte le ribellioni, cosa posseggono? Dei brandelli di ideologia, delle parole ripetute, degli slogan funerari ed appassiti, che abbandonano come detriti in un angolo della loro stanza. Sotto questa crosta, la loro esistenza interiore non si è sviluppata: l’infanzia è morta, senza sciogliersi nell’età matura; e ora stanno lì passivamente, né giovani né vecchi, né bambini né adulti, col volto inutilmente serio, col capo prono e chino, senza slancio, né desiderio di vivere.


(Pietro Citati)



* * *



La cronaca nera, di solito, accende i suoi riflettori, luminosi e accecanti, solo quando avviene un fatto, un episodio degni di essere menzionati. In questi giorni, il circuito mass-mediatico locale ha fatto flop: la morte di un uomo (36 anni) per overdose, da anni attanagliato da questo problema, non ha fatto scandalo e, giornalisticamente parlando, notizia.

Mi vengono, in questo caso, alla mente altre morti eccellenti: tutte accompagnate da lacrime, cortei funebri, applausi (vizio tipicamente italico) e lunghi discorsi elogiativi delle persone – ahinoi – scomparse. Ciò che mi ha colpito, in questo frangente, sono stati l’assoluta indifferenza e il totale menefreghismo della città verso una morte. Una morte proletaria, bollata dalla gente come inevitabile, cercata.

Mi vengono spontanee delle domande, allora: esistono morti di serie A e quelle di serie B?

E’ giusto far finta di niente quando un evento del genere non ci tocca direttamente?

Ci siamo mai chiesti del perché questo nostro concittadino, che tutti definiscono sconosciuto, anonimo, “abbracciasse” la causa della droga per trovare alleviamento e speranza di risorgimento dal dolore e dalla sofferenza interiori?



Questo tragico e funesto evento umano, porta alla ribalta uno dei più gravi e distruttivi problemi che la città presenti: il dilagare del fenomeno della droga. Una terribile piaga sociale che, anno dopo anno, sta mietendo vittime e, nei casi migliori, disperati alla ricerca di un’identità e immagine perdute e che, molto probabilmente, non riusciranno più a recuperare; una macchia indelebile rimarrà nei loro fragili cuori; intere famiglie si scoprono, davanti all’enormità del problema, indifese o, meglio, incapaci, di affrontare questo maligno cancro.

Osservando la nostra realtà sempre con occhio critico e distaccato, penso che, nel promontorio del Gargano, San Giovanni Rotondo sia la città che detiene un triste primato: l’uso aberrante e massiccio di sostanze stupefacenti. Un primato che molti fingono di non vedere. Un primato che nessuno, dico nessuno!, ha seriamente intenzione di affrontare. Occorrerebbe, in effetti, drasticità, serietà e intransigenza che non sono affatto presenti, in generale, nel cittadino sangiovannese.

Una droga, dunque, che scorre in grosse quantità, una droga che si disperde in mille rivoli, una droga che “viaggia” impunita, una droga – ed è questa la grande differenza rispetto ai decenni passati – diventata interclassista, di massa, dove le classi borghese e proletaria si fondono e mimetizzano come tante viscide e silenziose lucertole. Lucertole appiccicose e velenose.

Un tempo ci si “accontentava” della marijuana, dell’hashish; oggi, a ben guardare, tutto ciò non basta più. La cocaina è diventata lo status symbol del nuovo millennio. Una moda da perseguire a tutti i costi, pena l’esclusione dalle persone e dai posti che contano.

Disgustasti dal mondo, tutti a cercare di vivere fuori di sé, coltivare un proprio doppio, quel Mr. Hyde che Robert Louis Stevenson pensò come doppio cocainomane del Dr Jekyll.

Sangiovannesi dalla doppia morale: belli e puliti di giorno; tenebrosi, senza troppe inibizioni di notte. Giovani in fuga dallo stress, dalla depressione, dalla noia, dai problemi quotidiani. Giovani che cercano di correre verso l’infinito.

Eric Clapton, genio della chitarra e sregolatezza negli anni giovanili, cantava: “Quando il tuo giorno è finito e vuoi ancora correre: cocaina”.

Una soluzione, la cocaina, che sembra sia diventata il “caballero dalla triste figura”, una soluzione epocale alla nostra malinconia. Pusher e consumatori uniti da un legame che appare indistruttibile. Per cosa? Per uno sballo fuorviante. Per uno sballo che, dopo l’inevitabile euforia, provoca danni, fisici e morali, a iosa. È questo il prezzo che si deve pagare per partecipare al grande rito collettivo, a cui nessuno, grande o piccino non importa, rinuncia. Un rito collettivo che raggiunge il suo apogeo il sabato: giorno dove tutto è concesso anche perché nei restanti giorni ci si rintana in casa nell’attesa ansiosa e disperata che arrivi il grande giorno. Al diavolo tutto il resto! Quale atteggiamento devono assumere i ragazzi di questa comunità se la città stessa si presenta ai loro occhi, incolori e tenebrosi, sena anima, incapace, tra l’altro, di trasmettere emozioni e sentimenti?

È il frutto del grande benessere? Probabile. Si ha tutto nella vita, ma forse ci si dimentica che il grande assente dei nostri moribondi tempi è l’amore! Amore per noi stessi, innanzitutto: per il nostro corpo e per la nostra coscienza. E l’amore, inoltre, per il prossimo: in un mondo tutto dedito e concentrato a fare profitto – e San Giovanni Rotondo rispecchia in toto questo modo di vivere e agire – l’indifferenza la fa da padrone, senza dimenticare il cinismo.

Giovani e genitori uniti da un falso perbenismo; generazioni a confronto che, a ben guardare, appaiono confuse e stordite, lontane anni luce l’una dall’altra; generazioni che, a causa della troppa indifferenza che aleggia nelle mura di casa, non si capiscono più, dove l’unico collante che tiene unito un nucleo famigliare sembra essere il danaro, questo maledetto dio danaro che tanti danni sta cagionando alla moralità di tanti sangiovannesi.

Un’indifferenza che, anzi, contribuisce ad alimentare le forze maligne e cancerose che solo una città sana, integerrima può curare. Metastasi che si propagano in maniera indisturbata, dove chi cerca di comportarsi in maniera retta viene visto come un “diverso”. Una “diversità” che fa a pugni con la crescente intolleranza dei nostri giovani, che ti guardano con l’occhio infelice e rabbioso. Giovani conformisti che parlano, si vestono, camminano, ragionano allo stesso modo. Un conformismo che solo all’apparenza si presenta affabile e moderato, ma che in profondità ha nel suo Dna la ferocia e l’aggressività, tipiche dei nostri tempi. Ragazzi amorfi, che non si meravigliano più di fronte a niente; ragazzi già saturi, nauseati, stanchi di vivere, come se il tempo avesse già bruciato tutte le tappe; ragazzi senza più una prospettiva sicura, dovuta anche all’incertezza dei nostri maledetti tempi; ragazzi che hanno perso quell’ingenuità e quell’altruismo che un tempo erano connaturati nell’animo degli adolescenti; ragazzi che bruciano le tappe e che all’età di diciotto anni pensano di aver già percorso l’intero cammino della vita; e quando la depressione, come una appiccicosa medusa, diventa un diritto, quando uno si guarda attorno e non vede niente o nessuno che lo ispiri, quando il mondo sembra scivolare via in una gora di ottusità e di grettezza materialista. Non ci sono più ideali, più fedi, non ci sono più sogni. Non c’è più niente di grande in cui credere; non un maestro cui rifarsi.



Si tratta, insisto, della perdita dei valori di una intera cultura: valori che però non sono stati sostituiti da quelli di una nuova cultura (a meno che non ci debba “adattare”, come del resto sarebbe tragicamente corretto, a considerare una cultura il consumismo).

Un intellettuale che meglio di chiunque altro ha saputo addentrarsi nelle latebre più oscure della realtà giovanile è stato Pasolini che, a proposito di ciò, ha scritto parole che io trasferisco alla nostra città: “I giovani non hanno espressione alcuna: sono l’ambiguità fatta carne. I loro occhi sfuggono, il loro pensiero perpetuamente altrove. Essi non hanno nessuna luce negli occhi: i lineamenti sono lineamenti contraffatti di automi, senza che niente di personale li caratterizzi da dentro. La stereotipia li rende infidi. Il loro silenzio può precedere una tiepida domanda di aiuto o può precedere una coltellata. Essi non hanno più la padronanza dei loro atti. Non sanno bene qual è la distanza tra causa ed effetto”. E qual è, a proposito, la cultura che i ragazzi di questa comunità tendono a diffondere e a difendere, se non quella materialistica e abietta di fare soldi, girare con auto lussuosissime, vestire con abiti firmatissimi e usare un linguaggio che, il più delle volte, si trasforma in urla gutturali?

Una città, la nostra, che ha preso, ormai da anni, il peggio della metropoli; una città che ha smarrito e distrutto il suo già delicato tessuto sociale. Il sindaco Salvatore Mangiacotti, tempo fa, disse che si sarebbe adoperato affinché questa piaga (non dimentichiamoci dell’alcol) venisse debellata. Come è possibile – mi chiedo – che ciò avvenga se gli altri responsabili di questo degrado, oltre ai già citati giovani, sono gli adulti, i nostri genitori quindi, e le forze dell’ordine locali? Siamo proprio sicuri che i diretti interessati siano realmente intenti ad affrontare tutto ciò? E con quali strumenti si intende combattere questo pesantissimo fardello? Questo nessuno lo sa!

Voglio partire, in questo caso, visto che li ho citati e tirati in ballo, proprio dai nostri genitori: da tempo li osservo, li seguo, seppure discretamente, ci parlo e mi accorgo subito di un elemento fondamentale: che non hanno i mezzi, colpevolmente, per fronteggiare una situazione che sembra sfuggirgli di mano. La famiglia era, un tempo, il punto di riferimento per ogni ragazzo: si tornava a casa, si discuteva e usciva insieme. Un luogo, anche fisico, dove le incertezze e le ansie dei figli venivano seriamente e concretamente affrontate e, in molti casi, risolte.

Un punto di riferimento che, a quanto pare, è diventato il luogo dell’abbandono, del laissez-faire e della connivenza; genitori troppo tolleranti, assenti, che trattano i figli non più come essere umani degni di essere amati, ascoltati, seguiti, bensì come un’incombenza.

Un “fastidio” che il più delle volte viene relegato ai nostri nonni, un tempo perle di saggezza e mitezza. Come ha scritto Giorgio Bocca, oggi “non esiste più la baldanza giovanile né tanto meno la saggezza degli anziani”. Genitori abbacinati dalle tante distrazioni che il mondo consumistico riserva loro: tentazioni e, perché non dirlo?, perversioni di ogni genere stanno, oramai, corrodendo ogni valore morale. Il sempre illuminato e tagliente Pietro Citati ha scritto che “oggi non ci sono più né padri né madri. C’è qualche fratello maggiore o qualche sorella maggiore, che con dolcezza imita i gesti del padre o della madre. No ci sono più leggi. Ci sono soltanto delle leggi personali: o dei simulacri di leggi, inventati giorno per giorno dalla società e dalla televisione, che aumentano l’inquietudine. Così nessuno può meravigliarsi se, a volte, nasca in molti una specie di nostalgia, o di desiderio per u tempo dove padri e madri giganteschi vegliavano sulla vita”.

In occasione di un convegno organizzato per discutere delle problematiche giovanili presenti nella nostra città, la cosa più sorprendente ed evidente è stata l’assenza dei nostri padri, un’assenza, che a parer mio, ha pesato non solo sulla qualità del convegno ma anche sulla moralità stessa dei ragazzi sangiovannesi. La presenza dei nostri padri avrebbe aiutato, e non poco, ad elevare la qualità del confronto, un confronto, ormai, troppo spesso dimenticato volutamente, relegato nei più oscuri anfratti dell’animo umano. Quali sono, allora, le colpe dei nostri genitori? Cosa potrebbero fare per preservare il capitale umano più importante che esista, ossia i ragazzi? Che battano un colpo, questi cinquantenni addormentati e vigliacchi!

Chi, a parer mio, merita una condanna, una condanna senza appello sono, inoltre, le forze dell’ordine. San Giovanni Rotondo, da anni, viene definita un’oasi nel deserto, dove la pace e la legalità regnano indisturbate. Niente di tutto questo! Una pace fintamente costruita, artefatta, che si poggia su fondamenta friabili: se scavassimo o spolverassimo la superficiale crosta, ci accorgeremmo di quante vie sotterranee e impervie vi sono al di là delle solite apparenze.

È mai possibile che nessuno si accorga di quanta droga giri impunita nei nostri vicoli e vicoletti? È mai possibile che in una città come la nostra, dove i punti nevralgici sono comunque limitati rispetto ad una grande città, nessuno riesca ad individuare i grandi responsabili di questo sporco “traffico”?

Quali difficoltà incontrano quelli che dovrebbero tutelare il relativo ordine pubblico di San Giovanni? Prima di mettere le manette ai tanti pesci piccoli, non sarebbe più opportuno e giusto scalare la piramide di questa struttura malavitosa e raggiungere la punta di questa oscura gerarchia verticistica che il più delle volte si presenta in abito elegante e lussuoso, con lo scopo precipuo di depistare le già scarse indagini su questo riprovevole reato?

Quanti occhi malavitosi, criminali cadono su una città come la nostra che, con un’attrazione turistica, monetaria e politica, almeno nel Sud, non ha eguali? Con quali mezzi, allora, si fronteggiano determinate storture? È un problema di mezzi (intendo soprattutto uomini), di intelligence o, più prosaicamente, di volontà?

Prima che il cinismo, l’indifferenza, l’ingordigia sconfiggano definitivamente l’anello debole di questa perfida società sangiovannese, sarebbe ora che ciascuno cerchi di portare il suo piccolo, ma fondamentale, contributo. Prevenzione, repressione, investimenti in opere di interesse pubblico possono essere i primi passi, se attuati con celerità e senza fini perversi e materialistici, verso la risoluzione, almeno parziale, di questi grandi mali che ho cercato di evidenziare. Solo puntando decisamente sulle nuove generazione che un paese, che vuol definirsi civile e moderno, può veramente rinascere, dopo anni di grande buio, di un buio pesto e infido.

giovedì 7 dicembre 2006

Nel paese della libertà limitata e vigilata

Noi giornalisti non siamo preti o suore, ma abbiamo dei valori etici: e questi sono dettati soprattutto dal rispetto di se stessi e dalla professione. Il nostro ruolo è far sì che altri non abusino del potere.


Abraham Abe Rosenthal





Ci si trova sempre in una posizione di contrasto con gli uomini politici. Questo è dovuto al fatto che non desiderano che noi raccontiamo tutto ciò che fanno.


James Reston





Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.


Costituzione italiana, articolo 21





Comincio questo articolo raccontando un aneddoto che spiega in parte le ragioni di questo nuovo commento.

Quando scrissi l’articolo sul convento dei balocchi, mandai il testo integrale del mio scritto, via e-mail, al mio stimatissimo professor Piergiorgio Odifreddi (matematico, logico, editorialista di Repubblica, dell’Espresso, di Scienze, nonché scrittore) col quale sono in contatto da diversi mesi; il caro prof., dopo pochissime ore, mi rispose, scrivendomi testualmente: “Caro Francesco, l’articolo è ben fatto: stai attento a non esagerare con le mie citazioni: ti si potrebbe ritorcere contro”. Mai profezia fu più esatta e giusta!.

Quando un regime – non importa se di natura politica, economica o religiosa – cerca di imporre le sue ferree regole che altro non sono che il rispetto, l’obbedienza, la devozione, il servilismo, il primo passo che si cerca di compiere, e di portare subito a termine, è quello di imbavagliare e restringere i confini della libertà di pensiero e di espressione, diritto fondamentale della società moderna riconosciuto dalla nostra Costituzione.

Un diritto da preservare a tutti i costi: qualora avvenisse una violazione di tale diritto sarebbe sacrosanta una denuncia. Un diritto-dovere che, oramai, sta avviandosi verso la completa estinzione, però. Un diritto-dovere considerato un fastidio.

Guardando quello che avviene nella nostra desolante città, mi viene da dire subito: mala tempora currunt! Strane cose succedono, in effetti, nella bigotta comunità locale, e da tempo, ormai. Lune nere oscurano il già torbido cielo sangiovannese. Tanti corvi neri si annidano nelle stanze del potere; tante museruole sono state comprate dai potentati locali e distribuite a buona parte dei media locali per silenziare i pochi battitori liberi di San Giovanni; tanti Ponzio Pilato e Giuda disposti ad accontentare le alte gerarchie del potere politico-religioso; tante sedicenti anime belle – comuniste, diessine, democristiane e chi più ne ha più ne metta – celeri e ridicole nel definire “qualunquisti” chi osa mettere in discussione il dogma o la verità ufficiale.

Sul terreno intellettuale la schermaglia vale poco più di zero: le cose importanti avvengono dietro le quinte; i nonsense legulei mascherano partite i cui fattori risolutivi spesso stanno altrove. Ad esempio, simpatie più o meno disinteressate ossia quel casus pro amico o liberum iudicis arbitrium al quale Leibinz dedica il IX della Dissertatio de causibus perplexis, favore politico, solidarietà confraterna, baratteria. I bienséants coltivano un eloquio cortigianesco-arcadico.

Cortigiani, dunque, che si gettano all’assalto di chi, da semplice cittadino, cerca di porre all’attenzione della plebaglia sangiovannese problemi evidenti, scottanti, pericolosi; problemi che invece di essere affrontati correttamente, vengono relegati nei più profondi bassifondi.

Cortigiani in carriera, molti dei quali giovinastri e senza nessuna dignità; cortigiani sempre alacri a stendere tappeti rossi al potente di turno, che va riverito, difeso a qualunque costo. Al diavolo la ragione! L’importante è praticare l’arte delle menzogna, gioco sofistico che molti sanno praticare alla perfezione.

Azzeccarbugli alla ricerca di una raccomandazione per poter praticare la carriera forense, capetti di qualunque ufficio stampa degni di essere assunti presso la Pravda di staliniana memoria, giornali mai stanchi di beatificare chi meriterebbe, invece, la galera, chierici dalla doppia, tripla identità, politicanti che gestiscono la pratica della res pubblica come se fosse un giochetto, cittadini passivi ed indifferenti ad ogni pratica segreta e che invece andrebbe seriamente discussa, clientele affamate di appoggi, favori e prebende.

E in questo scenario apocalittico, cosa fanno i nostri media locali, fatta salva qualche lodevole eccezione che quotidianamente si affanna a dare la possibilità di espressione a chi ha qualcosa da dire?

Elogiano, salutano con cori da stadio vecchi e mai desiderati ritorni, fingono che tutto vada per il verso giusto, applaudono ciò che invece andrebbe seriamente criticato, censurano ciò che ai loro occhi potrebbe dar fastidio, intimidiscono chi invece andrebbe sostenuto. Questo è ciò che avviene da anni, purtroppo.

Perchè questo? Semplice: perché si cerca di mantenere una pace (finta e prossima all’implosione) che preservi i tanti e macroscopici interessi presenti nella nostra comunità. Affari che devono procedere a qualunque costo: l’occhio indiscreto di chi cerca di capirci qualcosa non è affatto desiderato. Direi, piuttosto, sconsigliato, pena la denuncia, la querela, la diffamazione personale, il ricatto e, per finire, la censura indiretta, quella perfida e sottile, che, pur non mettendotelo per iscritto, ti fa capire che è meglio lasciar perdere. L’emarginazione è sempre l’arma preferita.

Linee telefoniche bollenti tra i diversi Palazzi del potere, richiami all’ordine costituito, minacce più o meno velate, occhietti dolci per ammorbidire l’intransigente, ammiccamenti, tentativi – riusciti – di mettere la sordina ad un articolo scomodo sono il modo attraverso cui si gestisce la libertà, una libertà, dunque, limitata, vigilata, controllata, punita dai famelici galoppini di ogni colore politico, schiatta e parrocchia. Catto-comunisti in latu sensu uniti da un unico, vero obiettivo: relegare ai margini di questa città i pochi che vogliono fare le pulci a chi agisce in maniera scorretta, per usare un eufemismo. Ugole sguaiate, anime grasse, teste piccole incrudeliscono vomitando loquela ventosa, stupida, malevole, allineati al persecutore

Tanti “ministri” della propaganda stanno crescendo nella nostra comunità. Tanti piccoli Goebbels (uno dei fedelissimi del Fuhrer) vengono allevati con una tecnica, che poi devono metter comunque in pratica, che l’insigne e raffinato giurista Franco Cordero ha saputo descrivere meglio di chiunque altro: “La questione tecnica è come amputare i cervelli. Il primo passo mira all’atrofia dell’immaginazione, facoltà sospetta. I controllori epurano il lessico, estirpando ogni possibile innesco della fantasia: circolano solo più parole neutre, omologate dalle polizie linguistiche; nello stato perfetto l’animale parlante reagisce allo stimolo come i topi d’esperimento; ogni indugio nella scelte verbale segnala curiosità analitiche da stroncare, perché da lì vengono le eresie […]

Nemmeno l’ombra di una dialettica: chierici vaganti mordono e fuggono. L’alterco prende forme evanescenti. Fiorisce l’arte gaglioffa del rompere i discorsi altrui con lazzi, bramiti, borborigmi […] Risentiamo aforismi da bassa sofistica su cosa sia il giusto. Quel che torna comodo al più forte; e gli oracoli applaudono, mentre l’uditorio accoglie rispettosamente qualunque raglio […] Ammettiamolo: è un lusso pensare, obsoleto e pericoloso perché complica la vita senza il minimo profitto”. Il pensiero, d’altronde, come diceva Baruch Spinoza, “non è un pensiero se non è libero”.

Applausi scroscianti per il benefattore o per il mecenate che in cambio della massima e totale fedeltà elargisce doni e pacchi natalizi perenni; invettive e insulti per colui che, vanamente, si tende ad emarginare. Ragli di asini che con la calamita cercano di tenersi stretta la poltrona che nemmeno Dio sa!

Tanti Goebbels e Torquemada, dunque, che si celano vergognosamente: il coraggio di prendere posizione è pura utopia. Un saluto, una pacca sulla spalla e, poi, quando nemmeno te l’aspetti, la pugnalata vigliacca. Tanti Goebbels e Torquemada che vengono vivisezionati, comprati e selezionati per descrivere alla massa ignorante una realtà che in realtà che non esiste. Tanti tribuni dell’Inquisizione pronti a demolire qualsiasi contraddittorio. Tanti omini con la schiena curva, ricurva e obliqua perché, come diceva Brecht, “prima la pancia e poi il resto”. Tanti giullari pronti e proni a recitare una farsa scritta da molti commedianti della politica, della chiesa e dell’imprenditoria (alberghiera ed edile su tutti) che ogni giorno mettono in scena uno squallido spettacolo.

Voglio concludere questo articolo con un piccolo dialogo tratto dal Dizionario filosofico di Voltaire che, a proposito della libertà di pensiero, ha costruito un bel confronto dialettico che, almeno in parte, mi sembra giusto riproporlo:



Boldmind: “Sulla terra ci sono cento religioni, le quali vi dannano tutte se credete ai dogmi del cristianesimo, da loro definiti assurdi ed empi; esaminate dunque questi dogmi”.

Medroso: “Come posso esaminarli? Non sono mica un giacobino”.

Boldmind: “Siete un uomo, e tanto basta”.

Medroso: “Ahimè. Voi siete molto più uomo di me”.

Boldmind: “Imparare a pensare sta solo in voi; voi siete nato in possesso di intelligenza; siete un uccello nella gabbia dell’Inquisizione; il tribunale del Sant’Uffizio vi ha tarpato le ali, ma possono rispuntare. Chi non sa la geometria può impararla; tutto possono istruirsi: è vergognoso lasciare la propria anima in balia di coloro ai quali non affideresti il vostro denaro; non abbiate paura a pensare con la vostra testa”.

Il convento dei balocchi

Gli uomini dimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio.


Niccolò Machiavelli



La disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile.



Corrado Alvaro



Se la matematica e la scienza prendessero il posto della religione e della superstizione nelle scuole e nei media, il mondo diventerebbe un luogo più sensato e la vita più degna di essere vissuta. Che ciascuno porti dunque il suo contributo, grande o piccino, affinché questo succeda, per la maggior gloria dello Spirito Umano.


Piergiorgio Odifreddi




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Eremita sulla Maiella, sant’uomo, esperto d’acque, guaritore, Piero del Morrone fonda una congregazione aderente all’Ordine benedettino e l’amministra, nient’affatto alieno dall’accumulare proprietà monastiche. Sta sugli 85 anni quando Carlo II d’Angiò e suo figlio Carlo Martello gli rendono visita, aprile 1294. Tema del colloquio lo scandaloso stallo che da 24 mesi tiene acefala la Chiesa: due Colonna contro tre Orsini, e rispettivi alleati; nessuno dispone degli otto voti richiesti, pari ai due terzi. Piero scrive ai cardinali. Quando tornano nel conclave, 5 luglio, Latino Malabranca, vescovo d’Ostia e decano quasi moribondo, racconta d’avere visto un romito annunciatore della collera divina, se la sede papale restasse vacante. Forse è Morrone, sogghigna Benedetto Caetani, futuro papa Bonifacio VIII e vero promotore e ideatore del primo Giubileo che, per la precisione, si tenne nel 1300.

Soffia lo Spirito santo: sul pio vegliardo piovono otto voti; seguono gli altri, papa d’una stagione, innocuo, trasognato, adoperabile. Il nome Celestino V, segnala liasions col Cielo. Lo incoronano all’Aquila, dove arriva su dorso d’asino come Gesù, suscitando l’entusiasmo popolare perché spirano arie mistiche. Ma i cardinali hanno lo sguardo freddo. Dal 5 novembre tiene corte a Napoli, sotto l’ala angioina, patetico gaffeur “de plenitude simplicitas”, commenta Iacopo da Varagine (Muratori, sub 1304): dissemina benefici, prebende, dignità, talvolta gli stessi su persone diverse; prodiga favori ai suoi; impoliticamente risparmia l’ala francescana estremista. Iacopone da Todi, ivi militante, l’avverte: “que farai, Pier da Morrone?”; “guàrdate da baratteri,/ ch’el ner per bianco ‘lo fo vedere;/ se non te ‘n sai bene scrimire,/ canterai mala canzone” (Laudi, 74). Smarrito, consulta l’insigne canonista Caetani, “molto pratico e sagace”, pronto a raccogliere la tiara, già d’accordo col re gallico e colleghi (G. Villari, VIII, 5): può dimettersi?; nihil obstat; e gl’indica un precedente arcaico, nonché il modo di abdicare. Niente lascia supporre plagio o coazioni. L’eremita non poteva più: nel concistoro 3 dicembre, dopo 5 mesi e 9 giorni, depone i paramenti e reindossa l’abito grigio; tornerà all’eremo. Celestino V è santo dal 1313, a complemento della vittoria francese, ma Dante lo vede sulla riva d’Acheronte tra i codardi “che mai non fur vivi”.

Questo che ho appena descritto è il grande intrigo del potere ecclesiastico realmente accaduto sul finire del 1200. La storia ci insegna che dietro ogni grande mutamento c’è, inevitabile, la mano dell’uomo. La storia che ho appena descritta, a ben guardare quindi, può essere tranquillamente trasferita ai nostri giorni e, cosa ancor più importante e grave, paragonata alla nostra città.

Una città dove solo i caudatari, legulei e lestofanti si ostinano a non accorgersi del marasma, e nel inferno dantesco in cui sono piombati cercano, vanamente, di sputare venenum sugli oppositori che, convinti delle idee che propugnano, ci mettono la faccia, il coraggio e, a volte, anche il corpo. Rifacendomi, quindi, all’intrigo ecclesiastico-politico di cui sopra, ho cercato di capire quali fossero le problematiche e le meschinità, più o meno volute, della realtà più misteriosa e segreta che la nostra città presenti: il convento.

Una realtà attanagliata, da sempre, eufemisticamente parlando, da un velo opacissimo di mistero: cambi continui nella gestione del potere; frati cappuccini, forse scomodi, spediti il più lontano possibile da occhi indiscreti; occhio vigile dell’autorità giudiziaria; dipendenti bramosi di fare carriera; manovre vaticane, più o meno segrete, ormai all’ordine del giorno e via discorrendo…

Ho cercato, con l’aiuto di qualcuno, di descrivere quello che tutti sanno ma che nessuno, o quasi, ha il coraggio di esternare pubblicamente. Un racconto che descrive, spero in maniera lucida, i problemi esterni e, forse, anche qualche problema interno che difficilmente verrebbero fuori se non avessi avuto la fortuna di parlare con qualcuno che spontaneamente ha voluto manifestare il proprio sconcerto di fronte allo sfascio religioso.


Un altro anno sta passando. E in questi giorni di un inverno (addio mezze stagioni) arrivato dopo i giorni della grande calura fuori stagione, mi son chiesto: che cosa riportano le statistiche degli uffici di Palazzo di Città a proposito della stagione turistica che sta per chiudersi? Qual è il bilancio o il consuntivo, chiamatelo come volete, di questo 2006 religioso?

A questo proposito sarebbe più opportuno, forse, chiedere direttamente ai frati cappuccini. Ma siccome le statistiche offrono sempre dati, cifre, numeri ‘freddi’, oggettivi, insindacabili, mi preme, a questo punto, andare oltre le ufficialità che il più delle volte celano fatti o episodi inenarrabili; scavare oltre la superficie, affondare la lama nel burro dell’indifferenza di chi ci lavora, scuotere le intorpidite coscienze dei pellegrini, dei credenti e di quanti sostengono, ipocritamente, che tutto procede per il verso giusto, quando, invece, occorrerebbe una drastica pulizia negli affari temporali del convento dei cappuccini.

A poco è servito, infatti, che il defunto Giovanni Paolo II emanasse la famosa bolla pontificia che consentiva al Vaticano di tenere sotto controllo gli affari dei frati cappuccini. Lunedì 11 novembre 1630 – perdonatemi la digressione storica – era una data famosa, la “journée des dupes” o creduloni: tali risultano Maria dei Medici, Anna d’Austria e relativo séguito, perché credono di avere vinto, mentre Richelieu comanda più che mai; negli avvenimenti convulsi dov’è questione d’istanti, un abbaglio può capitare anche ai giocatori abili.

A distanza di qualche anno, infatti, non è cambiato nulla; il denaro gira sempre più vorticosamente, gli affari procedono a gonfie vele, l’industria della Chiesa locale registra incassi da favola, e l’economia sangiovannese sembra spedita verso nuovi lidi. Ma siamo proprio sicuri che questi nuovi lidi portino verso spiagge luminose, dorate, infinite?

Mi chiedo ancora: è sana la nostra economia? Su quali fondamenta è sostenuta? Ha gli anticorpi necessari per resistere ad un eventuale terremoto? Un terremoto che può essere giudiziario, finanziario e religioso? Quanto potrà giovare ancora raschiare il fondo del barile? L’impressione, più che fondata, è che la bolla sia prossima a scoppiare. Una bolla speculativa che si è venuta a creare perché tante sono state le aspettative degli abitanti del posto. Aspettative – è la storia economica che ce lo insegna, da Smith a Ricardo – che a lungo andare resteranno deluse, dato che è molto improbabile che vengano soddisfatte in eterno.

Molti, infatti, fanno finta di non vedere o di non sapere. Tutti sperano, dunque, che la mucca (sto parlando ovviamente del convento) mungerà all’infinto; una mucca dalle proporzioni elefantiache; una mucca dalle risorse immense, che satollerà le richieste, sempre più fameliche, dei voraci e ingordi sangiovannesi. Cafoni arricchiti che dal nulla sono riusciti a costruirsi imperi; cafoni arricchiti che al momento giusto sono riusciti ad intrufolarsi nel posto giusto. Ma in cambio di che? Quale prezzo hanno dovuto pagare per poter raggiungere certi obiettivi che di certo, in una situazione di normalità, non erano alla loro portata?

E ancora: ma fino a quando queste risorse immense dureranno? E cosa succederà se alle aspettative non corrisponderà una adeguata e duratura crescita economica? Ce lo siamo mai chiesti?

Ho cercato, allora, munito di blocchetto e penna, di spolverare l’incrostata superficie, fatta di volgarità, indifferenza, pacchianeria, materialismo; e a distanza di due anni, da quando scrissi l’ultima volta su questo tema, la situazione è imbarbarita. Peggiorata.

Sembra che a toccare certe corde si resti fulminati. La barca sembra affondare, ma tutti, o quasi, sono contenti di quello che vedono o sentono. Una barca dove tutti sono costretti a recitare lo stesso copione. Una barca dove si organizzano pranzi e cene pantagruelici. Una farsa continua, insomma.

Il denaro, che il filosofo Francis Bacon chiamava letame, agli occhi di noi comuni mortali sembra non emanare olezzi scandalosi. D’altronde basta rifarsi ai latini che dicevano “pecunia

non olet” per capire tutto quello che sta dentro quel gran mercato che è, per l’appunto, il Convento dei frati cappuccini.

Un mercato sempre più grande, sempre più affollato dove questuanti d’accatto si mischiano ai numerosi dipendenti che in un modo o nell’altro accolgono i milioni di visitatori speranzosi di trovare un po’ di pace, silenzio, tranquillità e che invece – basta d’altronde chiedere – restano confusi, storditi dal baillame che si crea dentro e fuori il grande mercato religioso sangiovannese. Un mercato degno del peggior Porta Portese. Una mastodontica mangiatoia dove gli stallieri non si preoccupano affatto di tenerla ordinata e pulita.

Speranzosi, inoltre, che il frate da Pietrelcina santificato sforni miracoli come un forno sforna il pane. Speranzosi che la pressante e corrotta pubblicità abbacini i tanti dubbiosi. Speranzosi che il conformismo e la malsana furbizia che regnano sovrani in questa nostra, maledetta città ottundano la mente di quelli che si oppongono a certi riti e a certe manifestazioni di tipo religioso-mondano. Manifestazioni che niente hanno a che fare con il dettato francescano: povertà e umiltà. Un dettato che non prevede l’attaccamento alle cose materiali e, quindi, terrene.

In che modo, allora, è stato possibile giungere a questa crudele involuzione, involuzione nel costume e nei comportamenti. Un’involuzione che ha diversi responsabili. Un’involuzione che chiama in causa le alte gerarchie fratesche del convento e la stessa popolazione locale che con il suo atteggiamento omertoso non ha fatto altro che avallare e favorire lo sfascio che, ormai da anni, è sotto gli occhi di tutti.

Nel silenzio generale, tombale direi, qualche voce fuori dal coro si è levata. Voci stonate, che si differenziano perché stanche di suonare lo stesso spartito; voci stonate stanche di seguire gli ordini che provengono sempre dagli stessi “maestri”. Voci stonate che meritano rispetto, ascolto, comprensione e, cosa ancora più giusta, sostegno. Un sostegno che sia totale, convinto, incondizionato e, soprattutto, disinteressato. Senza se e senza ma.

L’impressione che si è avuta, però, è che la voglia di combattere sia ben poca. Perché sfiduciati e impotenti di fronte a quello che è presente intorno a noi.

Ma non solo: quando tutti gli organi di stampa locali sono allineati, quando i fiumi d’inchiostro che si versano tendono solo ad elogiare il sacro (poco o nulla) di questa città, quando Lo Sperone Nuovo dà spazio solamente ai panegiristi di Padre Pio, quando l’emittente televisiva Teleradio Padre Pio (che trasmette anche sul digitale) tra rosari, cantilene, veglie e messe si dimentica volutamente premeditatamente di informarci che il convento non è solo quello, anzi, cosa vogliamo pretendere da questa città? Che cosa vogliamo pretendere da questa città se ad ogni critica, anche dura, ci si oppone comicamente con insulti, tentativi di scherno e battute più o meno penose?

Una città dalla doppia morale; una città che cerca di farsi bella (ma non ci riesce mai) con vestiti lisi e lussuosi nelle occasioni di grido, e una città che, subito dopo, veste i panni che le sono più consoni: quelli del doppiogiochismo, dell’intrallazzo quotidiano e dell’embrassons-nous.

Per evitare, dunque, di ascoltare la solita tiritera, il stanco ritornello del tipo “va tutto bene”, le solite “verità” propalate a destra e a manca, ho preferito, sinceramente, interpellare le persone, davvero poche purtroppo, che nel grande circo mediatico-mondano-politico-religioso osservano, e giudicano, tutto in maniera disinteressata (ho scoperto, ad esempio, che anche in convento si può fare carriera: basta conoscere il saio giusto!) e, a volte, con sofferenza.

La dignità, d’altronde, non si baratta con niente! Giorni fa, quindi, per tastare con mano direttamente la situazione, ho posto delle domande ad alcune persone che lavorano in quell’ambiente. Spero davvero, che le risposte date servano. Servano a capire a che punto siamo giunti; e che ci inducano a riflettere sulla reale situazione che si è venuta a creare.

Di seguito, quindi, troverete il testo integrale di un colloquio con uno dei pochi (in) dipendenti che ha voluto manifestare il suo sconcerto, la sua rabbia e indignazione per una situazione che a molti fa comodo.

Una situazione dove la cleptocrazia la fa da padrone. Per ovvie ragioni di opportunità – e questo fatto, che sta a testimoniare il livello di omertà e menefreghismo che regnano sovrani in quel dato ambiente, ci deve indurre a serie riflessioni – ometterò il nome della persona interessata.



Prima di entrare nei dettagli di questa intervista, considerando anche l’ambiente in cui lavora, mi voglio soffermarmi, seppur en passant, sulla religione, nel vero senso della parola, tralasciando, per il momento, l’aspetto prosaico e profano della questione che andremo a discutere.

Il grande Harold Kroto, premio Nobel per la chimica nel 1996 per la scoperta del fullerene, la molecola di carbonio a forma di pallone da calcio, conversando con il professor Odifreddi a proposito di Dio e della religione in generale, ha così commentato: “Credo che ci siano due tipi di persone al mondo: quelli che hanno credenze mistiche e quelli che non le hanno. Questi ultimi credono che la vita sia tutto ciò che abbiamo, che dobbiamo godercela e aiutare gli altri a godersela. Gli altri pensano che la vita futura sia più importante di quella presente e temo che faranno saltare in aria il mondo. È certo che una buona parte di questi matti trova giustificazioni religiose per la propria pazzia”.

Vivendo e lavorando in una città molto provinciale, ipocrita e bigotta (solo esteriormente, però), dove l’ortodossia ecclesiastica la fa da padrone e dove, di conseguenza, non c’è nessuno spazio per un serio dibattito sul rapporto tra fides et ratio, anche lei pensa che dopo la vita terrena ci sia qualcos’altro, di celeste e trascendente?

Da cattolico penso che ci sia qualcos’altro, di ultraterreno. Se dovessi usare, però, gli schemi della Chiesa cattolica, non posso definirmi cattolico al cento per cento. E le spiego il perché. Credo nelle Sacre Scritture e nelle omelie fatte dai sacerdoti: aiutano il cattolico a condurre una vita migliore e più giusta. Credo nell’Aldilà e ai miracoli; queste mie credenze saranno pure frutto dell’educazione che ho ricevuto sin dall’infanzia e dell’ambiente in cui sono vissuto, ma, pur se tormentato a volte da dubbi, penso che qualcosa di inspiegabile e irrazionale ci sia.

La stessa figura di Padre Pio, le sue azioni e il suo comportamento in generale sono la prova concreta e tangibile, visto che da anni lavoro nell’ambiente in cui il frate di Pietrelcina ha vissuto, della sua Santità.

Poc’anzi ho detto che non seguo in toto gli schemi della Chiesa cattolica perché, seguendo le vicende ecclesiastiche di questi ultimi anni, mi sono reso conto che tanti che portano l’abito sacerdotale o il saio francescano sbagliano, e molto. Sono uomini che il più delle volte predicano bene e razzolano male. E questo elemento rafforza ancor di più l’immagine sacra di Padre Pio.


Un grande matematico dei nostri tempi, Piergiorgio Odifreddi, nel suo saggio Il matematico impertinente, a proposito di Padre Pio, dei suoi miracoli e di tutto quello che gli sta intorno, ha scritto parole sacrosanti che io condivido pienamente: “Le sceneggiate, come la cerimonia di canonizzazione di Padre Pio del 16 giugno 2002, accompagnate da un imbarazzante mercificazione di gadgets, non possono che scavare un solco di separazione fra chi crede e chi pensa, e testimoniano il disinteresse della Chiesa cattolica verso coloro che vorrebbero soddisfare i propri bisogni di spiritualità, senza però rinunciare ai doveri della razionalità”.

Condivide le parole del professor Odifreddi o scorge nel suo pensiero troppa durezza?

Anche se c’è troppa durezza nelle parole del professor Odifreddi, condivido il suo pensiero. Durante la cerimonia di canonizzazione di Padre Pio abbiamo assistito ad una mercificazione imbarazzante e ad uno spettacolo davvero poco edificante. Su qualsiasi oggetto è stata incollata una immagine del Santo; all’interno dello stesso convento, fino a qualche tempo fa, il mercimonio è stato sfrenato. Mi accorgo, però, che questa realtà poc’anzi descritta dal professor Odifreddi è estensibile in tutta Italia; ormai, l’iconografia del frate fa vendere e, di conseguenza, arricchire: chiunque, senza più nessun decoro, sfrutta il nome di Padre Pio.


Tornando, invece, agli aspetti materiali dei problemi che volevo discutere con lei, mi viene da chiederle subito una cosa: da quando lavora in questa mega-struttura?

Sono diversi anni che lavoro in questa che lei, giustamente, chiama mega-struttura. Con i suoi quasi duecento dipendenti può definirsi una media impresa. Gli anni che ho trascorso qui mi sono bastati per comprendere, anche nei dettagli, in che realtà viviamo.


Attraverso quale canale è riuscito ad entrare?

Attraverso la segnalazione, come tutti del resto. Alcuni hanno avuto la possibilità di entrare grazie alla conoscenza diretta con un frate cappuccino, altri attraverso amici degli amici, altri ancora devono ringraziare alcuni politici, visto e considerato che le promesse fatte in campagna elettorale sono state veramente tante…


Perché da semplice volontariato le gerarchie ecclesiastiche del convento hanno deciso, da anni ormai, di trasformare tale servizio in un vero e proprio lavoro?

Hanno dovuto prendere questa decisione solamente perché dovevano regolarizzare i tanti che lavoravano in nero. Siccome l’illegalità regnava sovrana, i frati hanno dovuto fare di necessità virtù.


Quali sono i requisiti, o le attitudini, che vengono richiesti a coloro che sono interessati ad entrare in questo circuito?

Lì non sono richiesti né requisiti né attitudini particolari né, tanto meno, competenze specifiche! Bisogna solo entrare nelle grazie di un frate. È successo, ad esempio, e penso che continuerà a succedere ancora, che diversi dipendenti, in base alla potenza e influenza della segnalazione, sono passati dal settore più umile e peggio retribuito, che è quello del settore pulizia, agli uffici, che di solito, come lei può immaginare, sono quelli più prestigiosi e, quindi, ambiti.


È davvero possibile, come pare, che se si conosce la persona giusta, si fa carriera? Non le sembra una cosa vergognosa che in un luogo di preghiera, silenzio, meditazione e misticismo si ambisca a fare carriera?

Come le dicevo, è certo che si ambisca a fare carriera! Lì ci sono intere famiglie che campano con questo mestiere, pertanto ottenere una promozione significa intascare denaro in più! La meritocrazia non sanno cosa significhi…




Quali sono i vostri rapporti con i frati cappuccini?

I rapporti in generale sono di cordialità; una cordialità, però, falsa, di facciata, ipocrita.

C’è un rapporto di forzata convivenza, fatta, in alcuni casi, di reciproci ricatti. L’importante è non cagionare rogne ai frati cappuccini. Ultimamente, dopo la creazione di un paio di sindacati, i rapporti sono diventati molto tesi: le rivendicazioni dei dipendenti vengono dilatate sempre sine die.

Quasi tutte le riunioni che occasionalmente vengono convocate per dirimere alcune questioni relative alla rimodulazioni del contratto che si cerca disperatamente di trasformare in contratto full time – è questa la rivendicazione più importante che si fa – si concludono sempre con un nulla di fatto. L’importante – questo è il ragionamento di chi gestisce il potere – è raggiungere l’obiettivi: fare soldi, fare soldi, fare soldi.


È mai stato in altri certi di spiritualità, tipo Assisi, Loreto, Lourdes, tanto per fare gli esempi più eclatanti? Quali differenze ha potuto scorgere?

Sono stato in tutti i luoghi da lei citati. E il commercio, più o meno sfacciato, si è riscontrato un po’ dappertutto. Le differenze che ho potuto scorgere sono soprattutto due: la prima è che, forse, cambia la qualità, se così possiamo definirla, del pellegrino; in altri luoghi di spiritualità c’è molta più compostezza, educazione e discrezione. Qui sembra di essere, soprattutto in estate, in una grande fiera: una compravendita continua. L’intento del pellegrino che giunge nella nostra città è quello di fare la scampagnata anche perché, e con questo non voglio fare del razzismo, il nostro è un turismo composto soprattutto di napoletani e baresi, di gente prevalentemente del Meridione.

L’altra differenza che ho potuto notare è che qui da noi arriva molta più gente: fare, quindi, delle estenuanti file, sotto una calura impressionante, offuscano la mente dei pellegrini che perdono in questo modo il motivo principale o la motivazione per la quale sono venuti, che è quella di rendere omaggio alla figura sacra di Padre Pio.


Nel corso di questi anni, dal suo privilegiato osservatorio, ha avuto la possibilità di comprendere, e analizzare magari, le storture e i peccati che nel grande barnum si sono commessi.

Ci può elencare quelli che l’hanno maggiormente colpito?

Il menefreghismo, l’ineducazione, uno scarso senso di civiltà e, soprattutto, la mancanza di rispetto della figura del santo da Pietrelcina al quale tutti dovremmo qualcosa, perlomeno la devozione.


Quali sono le responsabilità dei frati cappuccini ed, eventualmente, quelle dei tanti che ci lavorano?

Non sta me giudicare il loro comportamento. Al contempo, posso dire che il credo francescano, basato sulla castità, obbedienza e povertà, non è stato rispettato, e in questo caso mi riferisco a quello di povertà, completamente relegato in un angolino. Il voto di povertà e di, conseguenza, quello di obbedienza non sono stati rispettati perché la regola a cui tutti si attengono è la seguente: girare con macchine di un certo livello, organizzare pranzi e cene raffinate e abbondanti e, dulcis in fundo, fare viaggi all’estero con numerose torme di lacchè. Se questo è il credo francescano, allora siamo messi proprio male!


Stando a contatto quotidianamente con torme di pellegrini, molti dei quali rozzi e volgari, ha potuto constatare quale fosse il loro stato d’animo di fronte a certe nefandezze che, oggettivamente, sono sotto gli occhi di tutti?

Molta gente, spesso, è delusa da questo comportamento; tanti pellegrini sono letteralmente schifati dalla mercificazione dell’iconografia del frate; e non di rado sono infastiditi dalla scarsa presenza dei frati cappuccini. A volte, però, sono gli stessi pellegrini, indirettamente e in maniera inconsapevole, a incentivare questo vizioso circuito. Non appena, infatti, entrano in convento sono, prima ancora di inchinarsi presso la tomba del Santo, già alla ricerca di oggetti che raffigurano l’immagine di Padre Pio. In tanti anni gli stessi frati, penso volutamente a questo punto, non sono stati in grado di intervenire.


Ha mai provato, ovviamente nel suo piccolo, a far mutare certi comportamenti?

Non ho mai fatto nulla! Se facessi qualcosa sarei Don Chisciotte contro i mulini a vento. Da solo cosa posso fare? La cosa che più mi ha colpito è stata l’indifferenza di tutti: i frati e i dipendenti sono i principali responsabili di questa schifosa realtà.

Tutti si rendono della situazione, ma pur di raggiungere gli obiettivi che si sono prefissati, non fanno assolutamente nulla per cambiarla.

Se tanti dipendenti e frati, piuttosto che lavorare e comportarsi rettamente, organizzano pranzi pantagruelici (ed è l’esempio meno negativo che le faccio), nei ristoranti più raffinati della città, cosa vogliamo risolvere…?


Facendomi un’idea della realtà che ho appena descritta, dopo aver girato a lungo nei meandri più oscuri del convento e dopo aver ascoltato qualche voce controcorrente, mi sembra giusto dire, a mio modesto parere, ciò che si può fare per migliorare una situazione sempre più disastrosa.

Le proposte sono le seguenti:

1) azzerare gli attuali vertici del convento con dei nuovi capaci di dedicarsi (qualche anima bella, ingenua e pulita ci sarà ancora in giro) veramente e sentitamente al credo francescano;

2) dare la possibilità ad un revisore super partes – magari assegnare il compito ad un’autorità giudiziaria – di registrare ufficialmente e ufficiosamente il denaro che entra nelle mastodontiche casse fratesche ed evitare, almeno parzialmente, che la pecunia si smarrisca in tanti rivoli più o meno reconditi;

3) ripristinare il servizio di volontariato: un servizio veramente sentito, fatto con lo spirito dell’associazione che si dedica ad una causa veramente nobile;

4) chiudere definitivamente, almeno quelli all’interno del convento, i negozietti, veri responsabili dello squallido mercimonio messo in atto in nome di Padre Pio (che si rivolterebbe dalla tomba se solo potesse vedere).

Al contempo, però, mi sorge un dubbio: è pura utopia quella che ho appena enunciata…?

Una Sinistra in frantumi

Ludwig Joseph Wittgenstein, nel suo Tractatus logico-philosophicus, diceva: “Se i politici fossero costretti per legge a definire ogni termine che intendono usare perderebbero gran parte della loro attrazione popolare”.

Il filosofo austriaco, se avesse la sfortuna di osservare i politici locali e la realtà che li (ci) circonda, sarebbe, molto probabilmente, molto più duro nelle sue elucubrazioni filosofiche concernenti l’uomo e la politica in latu sensu.

Dopo la grande sbornia derivata dalla vittoria elettorale, l’assalto famelico alle ambitissime poltrone assessorili e l’inattesa e forzata defenestrazione di una parte dello schieramento ulivista che appoggiava Salvatore Mangiacotti, nel bollentissimo e mastodontico pentolone della sinistra sangiovannese, quella che per definizione o per semplicismo giornalistico viene definita radicale e massimalista, è nata una nuova formazione politica, Uniti a Sinistra. Un gruppo politico formato da delusi sinistrorsi. Un gruppo costretto ad abbandonare una barca che sin dall’inizio subiva, per esclusivi demeriti della squadra governativa, perdite d’acqua mostruose. Un gruppo politico non immune da errori e conformismi. Un gruppo politico che, a quanto pare, verrà guidato da Nunzia Canistro, donna vogliosa, seria, intraprendente; ma per scalare le vette e dipanare la complicatissima matassa che si è venuta a creare servono gli attributi, la furbizia e una certa dose di sfacciataggine che la neofita Canistro di certo non ha nel suo ingenuo DNA politico.

L’unica nota lieta di questo mini-evento è, quindi, proprio la presenza di una donna. A mio modesto parere, però, le note liete finiscono qui. Mi chiedo: era proprio necessario creare un’altra formazione politica? A cosa servirà questa ridicola pattuglia di delusi e trombati? E qual è il progetto politico che Uniti a Sinistra intende portare avanti? E ancora: quali sono le istanze che si vogliono difendere?

Nel mare magnum della politica sangiovannese questo pseudo-partito contribuirà a creare solo confusione, una confusione nella confusione, a fare danni, a gettare benzina sul fuoco sulla già disastrata e focosa maggioranza che da un anno e mezzo siede i vellutati e comodissimi scranni di Palazzo di Città. Maliziosamente mi vien da porre due domande a questa scombiccherata pattuglia: se il sindaco non avesse messo alle porte alcuni assessori che oggi inneggiano a questa nuova finto creatura, sarebbe nato ugualmente Uniti a Sinistra?

E se Mangiacotti, con una astuta azione da politico navigato e maligno, decidesse, in prospettiva, che i posti vacanti nella squadra di governo debbono essere ricoperti da alcuni aderenti di questo nuovo partito, cosa deciderà di fare il direttivo (ammesso e non concesso che ci sia) guidato dal segretario Canistro? Ritirerà, per meri interessi di bottega, le sue accuse di malgoverno?

A riguardo i dubbi sono leciti proprio perché nessuno sentiva il bisogno – forse neanche i defenestrati! – di avere sul groppone un altro fardello del genere. Un fardello pesantissimo, ingombrante e, molto probabilmente, inconcludente.

Gli elettori, cara Canistro, sono stufi della politica, del politichese e delle chiacchiere che si pronunciano quotidianamente nelle fumose e maleodoranti stanze dei partiti. Si ha la nausea, ormai, delle divisioni all’interno del centro-sinistra! Non se ne può più dei comici litigi che i maggiorenti delle formazioni politiche uliviste (Uniti a Sinistra compreso) inscenano davanti ad elettori disillusi e inibiti e impotenti.

Fa rabbia, adesso, che i tanti ‘Ponzio Pilato’ di questo nascente pseudo-partito, senza dimenticare, ovviamente, i tanti comunisti, rifondaroli, ambientalisti, verdi e chi più ne ha più ne metta, scarichino le colpe sul già frustrato sindaco e sui suoi più stretti sodali! Non bisogna dimenticarsi, infatti, che per un anno circa si è avallato ciecamente qualsiasi progetto che il governo, guidato dal grande Mister Yes, alias Salvatore Mangiacotti, decideva di portare in consiglio comunale.

Cercarsi, ora, di rifarsi una verginità è una cosa di cui ci si debba vergognare, e molto; mostrarsi candidi, illibati di fronte allo sfacelo assolutamente apodittico e cui si è dato un grosso contributo è una cosa francamente orripilante e assurda. Impartire lezioni di moralità e buon governo, dopo la grande defenestrazione, è sinonimo di scarsa avvedutezza e miopia politica.

In questi giorni abbiamo assistito a tante pacche sulle spalle, agli in bocca al lupo di rito, alle chiacchiere che di solito nascono in queste occasioni, ma gli unici, concreti elementi che si sono evidenziati da questo ennesimo parto sono: il cinismo, l’opportunismo, l’egocentrismo e il nanismo di chi pensa di fare politica solo perché si è stati relegati in un angolino.



PS: l’obiettivo che mi ero posto quando decisi di intervistare il sindaco Mangiacotti era quello di indurre i numerosi lettori di questo portale a farsi un’opinione di quello che il sindaco, per l’appunto, aveva esternato in occasione dell’incontro avuto con il sottoscritto nei giorni precedenti. Speravo, inoltre, che si potesse discutere seriamente delle problematiche che la nostra città presenta ormai da anni. Ho potuto constatare, ahimè, quanta rabbia scorra nelle vene di molti sangiovannesi; quanto odio si propali nei confronti di chi cerca, in maniera onesta e lucida, di comportarsi rettamente.

Leggendo i commenti che si rifanno, in qualche modo, alla mia intervista e, in parte alla mia persona, voglio rispondere in particolar modo a due persone (le altre offese non meritano nessuna risposta) che, per un verso o per l’altro, hanno preso due cantonate mastodontiche. Due cantonate bestiali! Due cantonate ridicole!

Il primo a cui voglio dare una risposta è Gianfranco Pazienza, ex assessore di questa amministrazione.

E spiego il perché: tra il 26-28 giugno del 2005, sempre su questo portale, scrissi che il governo locale che si era venuto a formare non rispecchiava quelle che erano le aspettative dei tanti simpatizzanti (io compreso) del centro-sinistra; dissi, in pratica, che questi uomini non sarebbero stati all’altezza del difficile e gravoso compito che la cittadinanza gli aveva conferito. Il defenestrato ed (ex) soldatino Pazienza, nel guest-book di allora, e nell’arco di pochissime ore, munito di alabarda ed elmetto corse immediatamente in difesa del suo amatissimo e idolatrato sindaco; scrisse (ed è un vero peccato che non si possa reperire il raffinato scritto dell’alabardiere Pazienza) nei miei confronti cose davvero allucinanti; sputò nei miei confronti una gragnola di offese. Una gragnola di offese che mi fecero fare, però, un sacco di risate; mi convinsero, ancor di più, che quello che avevo scritto poteva tranquillamente avverarsi.

A distanza di 15 mesi, a quanto pare, il povero Pazienza – che durante le precedenti campagne elettorali, con la sua inimitabile e infallibile chitarra, sguazzava tra i gradini dei portici, cercando di raccattare più voti possibili – si è ricreduto. Basta, d’altronde, leggere il suo commento per capire il suo rammarico e la sua disperazione.

Mi sorge un dubbio: si è ricreduto solo perché ha perso l’ambita e remunerativa poltrona di assessore? Se così non fosse, dovrebbe porgermi le dovute scuse e dirmi che avevo ragione, nel lontano 2005, a dire che questa maggioranza avrebbe fatto tanti danni. Caro Pazienza, chi di spada ferisce di morte perisce…

Ad uno scrivano che, ma non è una novità!, non si firma, e che mi accusa di essere stato assente negli anni della grande farsa-Squarcella e di aver ricevuto consigli da Mangiacotti (mi spiace, ma i consigli li ricevo al massimo solo dai miei genitori e da una ristrettissima cerchia di persone), gli dico semplicemente di andarsi a (ri) leggere i miei articoli firmati (che mi potevano costare, e molto), del 2003 sullo Sperone Nuovo, prima che Squarcella e compagni venissero arrestati. Prima che, insomma, molti suoi lacchè abbandonassero la barca che stava affondando in modo vergognoso.

Quando questo paese la smetterà di essere NANO nel suo modo di pensare, agire e manifestarsi, solo allora, forse, potrà conoscere una via d’uscita ai suoi problemi che, come ho avuto l’occasione di constatare per l’ennesima volta, non sono solo di natura politico-economico-sociale-morale.

La pochezza umana non conosce limiti…

Intervista al Sindaco Mangiacotti

“La mia sfida è la seguente: ammodernare questa città”




[…] ogni tanto mi accorgo che la penna ha preso a correre sul foglio come da sola, e io a correrle dietro. È verso la verità che corriamo, la penna e io, la verità che aspetto sempre che mi venga incontro, dal fondo di una pagina bianca […]


Italo Calvino, Il cavaliere inesistente



Che cosa sia – obbiettivamente – la verità, resta da stabilire; ma nei rapporti con gli uomini non ci si deve lasciar terrorizzare da questo fatto. Ci sono criteri sufficienti per un primo orientamento. Uno dei più sicuri è quando ci si sente obbiettare che un’affermazione è troppo “soggettiva”. Quando questa obbiezione viene fatta valere, e con l’indignazione in cui echeggia la furente armonia di tutte le persone ragionevoli, si ha motivo di rallegrasi tra di sé per un attimo.


Theodor W. Adorno, Minima Moralia





Incontrai Salvatore Mangiacotti, uno dei tanti candidati di quella scialba e noiosa campagna elettorale che fu per l’appunto quella del 2005, l’ultima volta a pochi giorni dal voto, in occasione di un’altra intervista che pubblicai per il foglio d’informazione “Libera Voce”.

Quante cose son cambiate, da allora. Il commissario straordinario è tornato alle sue consuete funzioni; il centro-sinistra, dopo la disastrosa parentesi di Squarcella, è tornato nella stanza di bottoni, nella stanza dove si decidono (forse sarebbe meglio dire distruggono) le sorti di questa povera città.

Sulle ali dell’entusiasmo il rampante Mangiacotti riuscì nell’impresa di ottenere un plebiscito: oltre 8mila e seicento preferenze! La città si fece trascinare da questo momento di euforia collettiva. Sembrava – queste furono le parole dell’attuale sindaco – che il rinascimento della città fosse, oramai, a portata di mano. Ma la nostra comunità è la città del Gattopardo: si cambia tutto per non cambiare niente!

Ho chiesto, allora, al sindaco di fare un bilancio, il primo, dopo un anno e mezzo di traversata nel deserto; ho cercato di enucleare i punti fondamentali, gli errori, le sviste e le vergogne varie dell’azione legislativo-esecutiva di questa sgangherata e comica maggioranza, un’armata Brancaleone che, giorno dopo giorno, perde qualche tassello in relazione alle sue già friabili fondamenta.

Il sindaco Mangiacotti – sarà forse anche per il ruolo che ricopre – ha difeso a spada tratta il lavoro della sua maggioranza; ha fatto finta di non vedere le tante lacune che in questi mesi di lavoro amministrativo e politico si sono palesate; ha descritto, in risposta alle mie domande, una città dove tutto procede per il meglio, dimenticandosi, tra l’altro, le critiche che gli provengono dai compagni del partito e dagli stessi componenti della maggioranza.

Un sindaco, dunque, molto concessivo nella prima parte dell’intervista, dove ha potuto rivendicare – sarà il tempo comunque a constatarlo – il lavoro svolto finora; e un sindaco molto restio, invece, ad addentrarsi nei meandri irti di ostacoli della politica. Un sindaco a volte arrogante, presuntuoso, bugiardo e poco coerente rispetto a qualche anno fa quando battagliava coraggiosamente e meritoriamente su tutti i fronti. Fu in quel preciso istante, come tutti ricorderanno, che avvenne la sua ascesa nell’agorà politico.

E se adesso non ammette di aver sbagliato neanche una virgola, descrivendoci il paese del bengodi, vien da pensare che il potere gli ha obnubilato la mente.




* * *



Sindaco Mangiacotti, prima di entrare nei dettagli di questa intervista, vorrei partire da un quesito più generale: è soddisfatto, finora, del lavoro che la sua amministrazione ha conseguito? Dopo un anno e mezzo circa di gestione della res publica è possibile fare un primo bilancio…
Sono molto soddisfatto! Sono soddisfatto degli obiettivi raggiunti e della programmazione messa in atto. E le faccio alcuni esempi: la mia giunta è arrivata in un momento in cui la situazione del nostro paese in cui c’era disordine, non c’era normalità e molti aspetti sospesi. In questo periodo tante sono state le cose fatte: la messa in sicurezza delle scuole, abbiamo affidato la riorganizzazione e la riqualificazione della città al Politecnico di Milano, abbiamo messo in piedi lo spostamento del depuratore, è in fase di costruzione il canile sanitario, è partita la riqualificazione delle periferie con finanziamenti della Regione. Queste, e tante altre di ordinaria amministrazione, sono le opere che la mia amministrazione può rivendicare con orgoglio. Il più delle volte si tende a vedere sono il pettegolezzo, la conflittualità che i progetti realizzati.


Secondo il mio punto di vista, l’amministrazione che lei guida dall’aprile 2005 ha fallito in toto la mission che si era imposta, che era quella di ammodernare la nostra città dopo gli anni disastrosi di Squarcella. Tutti ricorderanno, penso, i grandi fasti e il consenso che la campagna elettorale dell’Ulivo ha saputo suscitare nella collettività, un patrimonio ormai quasi dilapidato interamente. Onestamente, si è data una spiegazione di un simile sfacelo che, oggettivamente, è sotto gli occhi di tutti? La sensazione che si è avuta è che non si avesse un’idea chiara di ciò che si voleva fare per la nostra povera, disastrata comunità…
Io credo che in questa domanda ci siano molte inesattezze; non è come dice lei. Il progetto era chiaro, che era quello di ammodernare la città. Ovviamente tale cambiamento non avviene in una settimana: i primi sei-sette mesi servono, in una pubblica amministrazione, per programmare. Dopo i dodici mesi avvengono le realizzazioni, ma questo avviene, per chi conosce i tempi della politica e della pubblica amministrazione, in ogni contesto e in ogni città d’Italia. Dal dodicesimo-diciottesimo mese al quarantottesimo si ‘cantierizza’ tutto. In questo è aperta la sfida che ci attende; se non facciamo questo, allora sì che ci sarà il fallimento.


Ritornando con la mente alla sua campagna elettorale, tutti ricorderanno che la sua squadra sarebbe stata all’altezza del difficile e gravoso impegno; ci si vantava, tanto per fare l’esempio più eclatante, di potersi affidare a nomi altisonanti come quello di Renzo Piano. La realtà, invece, è stata ben diversa; le cariche, come tutti abbiamo potuto constatare, sono state assegnate a personaggi, con qualche misera eccezione, a dir poco impresentabili. Quali sono le sue responsabilità su un tema così scottante e delicato?
Le scelte, purtroppo o a giusta ragione, vengono prese insieme ai partiti; in questo senso non c’è autonomia piena del sindaco anche se la legge lo prevede, ma nei fatti i partiti rivendicano a giusta ragione l’indicazione nei ruoli assessorili dei propri uomini. Sono convinto che sia gli assessori precedenti che questi che si sono succeduti hanno fatto e stanno facendo bene nell’interesse della comunità. Abbiamo unito più di una volta la motivazione, passione all’esperienza che servirà a raggiungere gli obbiettivi in maniera più rapida.


Come mai, allora, ha deciso di metterli alla porta?
Era necessario aggiungere, come dicevo poc’anzi, esperienza, professionalità, competenza e anche autorevolezza in ambito amministrativo. Credo che con alcuni uomini si sia fatto un passo in avanti. Prima c’era l’entusiasmo, la motivazione ma molte volte in politica tutto ciò non basta.


Ciò che, forse, ha dato più fastidio alla collettività, che comunque il più delle volte ama stare in queste sporche manovre da cortile, è stato il modo di gestire il potere assegnatovi: clientelare, amicale e familiare, dimenticandovi, il più delle volte, di operare nell’interesse collettivo. Come mai non è riuscito a porre un freno a questo vergognoso modus operandi? Molti le contestano, a giusta ragione a parer mio, di essere stato uno degli artefici di tale comportamento…
Sono domande, le sue, che derivano da una non conoscenza del lavoro politico-amministrativo che si svolge in seno alle istituzioni. Abbiamo utilizzato sempre criteri oggettivi, trasparenti, cercando il meglio e coinvolgendo tutti. A volte si confonde la mia disponibilità, il mio servizio quotidiano ai cittadini con altre forme sciocche di gestione del potere. Quando sarà il tempo i cittadini esprimeranno i loro giudizi.


Nella cronica incapacità di amministrare una città come San Giovanni Rotondo, le deficienze e le mancanze che più di tutte le altre sono risultate evidenti riguardano essenzialmente i seguenti nodi: le infrastrutture, da sempre il pomo della discordia di questa città, l’urbanistica nella sua globalità e lo scarso impegno nel risolvere uno dei problemi più gravi della comunità, vale a dire il degrado giovanile. Come mai si sono manifestate delle così palesi lacune a riguardo?
Non ci sono state lacune, assolutamente! Una rimodulazione della città, e qui mi riferisco all’urbanistica, richiede tempo. Ed è in questo ambito che si prevedono una nuova viabilità, dei nuovi parcheggi e dei nuovi servizi. Fra qualche mese vedremo i frutti di questa pianificazione che poi dovremo comunque tradurre in atti amministrativi. Per quanto riguarda le altre questione da lei poste, credo che anche qui molti che in questo paese si sforzano di scrivere e si definiscono giornalisti, dovrebbero frequentare più Palazzo di Città, non fermarsi alla chiacchiera di strada e capire effettivamente come lavorano gli uffici e l’amministrazione.
Come si fa a dire che in queste tematiche siamo stati assenti?! Nel corso di questi mesi tante sono state le attività e manifestazioni culturali che abbiamo promosso; progetti sociali per decine e decine di persone; abbiamo migliorato i servizi delle scuole materne; stiamo lavorando con le forze dell’ordine per ridurre il degrado giovanile cagionato essenzialmente dall’uso di droghe e dall’abuso di alcol. Tanti problemi che si sono presentati li stiamo affrontando e che di certo non si possono risolvere con la bacchetta magica.


Come più volte denunciato da altri diversi organi di stampa locali, il turismo religioso più che fonte di ricchezza sta diventando un fardello. Tante sono le problematiche che restano ancora da risolvere: la rete viaria, indecorosa per una città che all’anno ospita più di 5 milioni di turisti; la pulizia delle strade e dei giardini pubblici, l’accattonaggio di tanti questuanti e il disastroso degrado ambientale cagionato da una vergognosa speculazione edilizia che, a distanza di 6 anni dal Giubileo, ancora non conosce soste e la mancanza di promozione del turismo congressuale, una delle numerose promesse fatte in campagna elettorale. Come pensate di risolvere queste bollentissime patate, finora relegate nei più reconditi anfratti di Palazzo di Città?
Continuo a ripetere che conoscete poco la realtà di San Giovanni Rotondo.
A proposito del turismo, ci sono stati tra i cinquanta e i settanta tour operator, cinque continenti, venti nazioni che hanno dato la possibilità alla nostra comunità di farsi conoscere a livello internazionale. La promozione turistica in questa città viene fatta in maniera competente e professionale; è partito il primo master di turismo religioso a Foggia e questo ci ha permesso di lavorare con l’Università; con altri comunità del Gargano abbiamo dato vita a delle convenzioni per promuovere il turismo (diverso o complementare a quello religioso) nella nostra zona. È partito l’Itinerario della fede con le città di Assisi, Fatima, Gerusalemme e Roma. Questa città ha bisogno solo di tranquillità e serenità per fare in modo che la zona internazionale della città sia una zona di silenzio e preghiera. Su questo fronte, a breve terminerà il lavoro di spostamento di tutte quelle bancarelle che ubicate su Viale Padre Pio verranno dirottate nella zona dell’anfiteatro; si sta completando il punto di informazione turistica, tale da eliminare il volantinaggio; e, infine, con le forze dell’ordine, stiamo approntando una serie di azioni per porre fine all’accattonaggio. Come vede, c’è tanto carne a fuoco: basta solo saperla gustare


Parafrasando Benedetto Croce mi vien da dire che questa città è la città degli onagrocratici, cioè degli asini. Si rende conto che i nostri migliori cervelli sono in fuga dalla nostra comunità e che non hanno nessuna intenzione di tornare proprio perché qui si tende, come al solito, privilegiare gli amici e, purtroppo, in un circolo vizioso sempre più perverso, gli amici degli amici?
Non sono d’accordo con quanto dice. Io credo che San Giovanni Rotondo, rispetto ad altre realtà, viva una situazione di privilegio. Io penso che sia un problema del Sud in generale dove vi sono poche occasioni o opportunità per il lavoro intellettuale, per chi ha studiato e per chi possiede una laurea e per chi ha competenza, capacità e professionalità. La mia sfida, e di tutti quelli che decidono di restare, è di mettersi al servizio, con una disperata vitalità quotidiana a lavorare. Deve finire il tempo della chiacchiera, del piangersi addosso e del lamentarsi sempre. Bisogna lavorare duramente perché chi ha capacità in una città trova il giusto spazio, le giuste motivazioni e, di conseguenza, le giuste soddisfazioni.


In occasione della sua effervescente campagna elettorale, promise agli oltre ottomila votanti suoi simpatizzanti che la burocrazia comunale da lei definita, con una parola ad effetto, ‘lentocrazia’, sarebbe stata in grado di offrire al comune cittadino un servizio davvero efficiente e rapido. A distanza di un anno e mezzo, invece, i tempi della macchina burocratica sono sempre gli stessi; il personale è poco propenso, per usare un eufemismo, a soddisfare le richieste della cittadinanza; la strada a cui tutti ricorrono è sempre la stessa: chiedere un favore al dipendente amico oppure al consigliere comunale di riferimento. Quando bonificheremo questa prassi indecorosa e incivile?
Abbiamo messo mano alla macchina burocratica da subito. Sono convinto che uno dei mali del Sud è la visione medioevale della burocrazia; ci sono dei vincoli, però, che negli ultimi anni hanno danneggiato la pubblica amministrazione. I primi interventi che abbiamo attuato riguardano le ‘progressioni’ sia orizzontali che verticali per motivare i più volenterosi e capaci, la formazione professionale proprio per eliminare una serie di comportamenti sbagliati e non corretti da parte dei dipendenti; stiamo tentando di aggiungere alla macchina burocratica altro personale perché gli attuali non ce la fanno a sostenere il carico di lavoro. Per il ruolo che la nostra città svolge nel panorama nazionale ed internazionale, occorrono altre, nuove risorse umane. Bisogna adeguare, e noi lo faremo, questa imponente struttura a questa fiumana di attività amministrativa. Mi considero un riformista, e le riforme avvengono sempre gradualmente. Le rivoluzioni hanno prodotto solo danni.


In una democrazia che voglia definirsi compiuta e rispondente delle aspettative dei tanti cittadini, la dialettica, anche aspra, tra maggioranza e opposizione è di fondamentale importanza; Ciampi diceva che la dialettica è il sale della democrazia. Per quale ragione nei consigli comunali, vero momento di confronto tra le diverse forze politiche, la discussione il più delle volte verte su questioni superflue e ridicole?
Su questo punto, condivido pienamente. Non c’è dialogo, non c’è confronto, non c’è rispetto tra gli uomini che in questa città fanno politica, anche non condividendo scelte, anche non avendo lo stesso retroterra culturale. Sicuramente farebbe molto meglio alla città un confronto serio, franco, tranquillo, a volte aspro, duro sui fatti, sulla programmazione e sulla pianificazione. Per fare questo bisogna avere la classe dirigente, e io credo che molte volte i più partecipano alla vita politica senza avere background culturale per poterla fare, e, quindi, questi ritardi si pagano nei consigli comunali e nei partiti. Spero, pertanto, che i più giovani possano ritornare a fare politica e occupare i partiti: per fare questo, però, occorre sacrificio, volontà e grandi capacità.


Cosa rimprovera all’opposizione, formata perlopiù da persone prive della spina dorsale necessaria per fare politica?
All’attuale opposizione rimprovero di non incalzare adeguatamente la maggioranza di governo sui problemi della città.



Il Partito…



Sindaco Mangiacotti, in politica la cinghia di trasmissione tra l’eletto e gli elettori è rappresentata dai partiti, nelle cui stanze si decidono le sorti non solo dei candidati ma anche dei cittadini. Prima di parlare delle attuali sorti dei Democratici di Sinistra, le chiedo: è rimasto soddisfatto delle gestione del partito da parte di Lauriola che a mio parere si è distinto più per la mediocrità cronica e la sua debolezza nella gestione del partito?
Giuseppe Lauriola è una persona per bene. Una persona seria ed onesta, caratteristiche che in politica sono fondamentali; una persona che ha raggiunto l’obbiettivo che si era posto, che era quello di portare a Palazzo di Città un candidato di sinistra. Questo fine che siamo posti e che poi abbiamo raggiunto lo si deve soprattutto a lui. Non posso che conferirgli i dovuti meriti, sia sul piano politico che su quello dell’organizzazione del partito.


In queste settimane si sta discutendo, e molto, dell’ingresso nella squadra di governo dell’ingegnere Siena, una figura che tanti danni ha provocato alla nostra città; era importante, quindi, dare alla collettività un segnale di rinnovamento e pulizia morale che con questa sua scelta è stato volutamente accantonato. Ci può spiegare, allora, perché si è indirizzato in questa erratissima direzione? Tutti ricorderanno le sue invettive, anche pubbliche, nei confronti del summenzionato personaggio…
Di invettive difficilmente ne faccio: sia se fanno parte del mio partito e sia verso gli avversari politici. Esprimo opinioni, valutazioni di natura politico-amministrativa, ma mai ho espresso opinioni sul piano personale o morale. Reputo Giuseppe Siena una persona perbene, onesta, seria e anche competente, competente come pochi in questa città. La sua partecipazione a livello amministrativo voluta da tutti i Ds, penso possa aggiungere, in termini di risoluzione dei problemi, molto.


Il movimento politico-culturale “Amo San Giovanni Rotondo”, in una nota inviata al portale “Sangiovannirotondonet.it”, a proposito di ciò, ha scritto: “Dopo tanto lavoro all’interno del partito, il Mangiacotti si guadagnò la fama del rinnovatore e diede l’impressione di possedere capacità morali tali da poter davvero contribuire alla svolta in positivo della politica amministrativa del nostro Paese… Questa immagine rinnovata che era riuscita a dare anche ai Ds, gli permise di raggiungere la candidatura a Sindaco alle ultime elezioni amministrative”. Come mai in un lasso di tempo breve è passato dalla fama del rinnovatore a quello del restauratore, restauratore dei peggiori vizi che la politica sangiovannese ci ha propinato per diversi lustri?
Io vengo da un percorso di impegno civile, culturale, sociale e politico serio. E questo mio percorso è avvenuto gradualmente: assessore, poi consigliere, capogruppo nell’aula consiliare e, oggi, sindaco. Nel mio percorso ho portato tanti giovani in politica che, lo spero davvero, nell’arco di qualche anno possano esprimere il cambiamento di cui questa città ha un necessario bisogno. Io sono il frutto del rinnovamento e rappresento il rinnovamento in ogni contesto. Non si possono ottenere cambiamenti repentini in maniera rapida; c’è bisogno di un lasso di tempo non molto breve anche perché i giovani si ritirano sempre di buon ordine, per loro scelta e non perché sono costretti.


I Democratici di Sinistra, il suo partito di riferimento, sono, da quando ha avuto inizio il segretariato di Lauriola, diventati un ectoplasma, una struttura priva di forza e idee. L’acme di questo sfascio è arrivato, sempre puntualmente ed inesorabilmente, con la nomina di Dragano a nuovo segretario del partito. Che cosa vi ha indotto a scegliere una figura del genere?
Il nostro partito non è un contenitore privo di idee, anzi. Dalla mia guida per finire a quella attuale, il partito ha creato riviste, conferenze, convegni, ha approfondito molti temi relativi alla città, ha avvicinato e coinvolto molte risorse nuove. Negli ultimi sette-otto anni c’è stata, e ci sarà, una prospettiva nuova e diversa all’interno del partito. Basti pensare al fatto che in sede consiliare c’è un capogruppo donna e un segretario amministrativo giovanissimo; questi sono aspetti importanti, che devono essere colti e che verranno ancor più rafforzati nel costruendo partito democratico.


Non ha mai pensato che dietro a queste manovre della famosa triade (Siena, Marcucci e Dragano), che lei ha comunque avallato, ci fosse un chiaro “progetto” politico, che era quello di riprendere il potere, detenuto fino all’anno giubilare?
Non c’è mai stata una triade e non c’è tuttora. Tolto Siena, che fa parte dell’esecutivo come assessore, gli altri due non detengono nessun potere. Le scelte che si fanno dal punto di vista politico-amministrativo vengono prese dalla maggioranza, dai partiti e, diverse, da me personalmente.


Un grande letterato del Seicento, Francois de la Rochefoucauld, indagando a fondo nell’animo umano, ha scritto: “Il più grande sforzo dell’amicizia non è mostrare i nostri difetti a un amico, ma fargli vedere i suoi”. Nel corso di questi anni all’interno del suo partito è stata applicata una legge ferrea, degna del peggiore totalitarismo: far fuori o relegare in un angolino tutti quei simpatizzanti che si opponevano ad un certo tipo di politica, per usare un eufemismo. Non sarebbe stato meglio, da parte vostra, ascoltare i consigli e le critiche, anche quelle più dure, provenienti da persone che tanto hanno fatto per il partito e per la politica in generale?
Non sono a conoscenza di persone che hanno criticato il partito e che poi sono andati via o che stanno ad un angolo. Ripeto: c’è molta chiacchiera e poco lavoro in questo paese. Chiunque arrivasse nei Democratici di Sinistra e ha voglia di lavorare, c’è spazio per tutti; idee che possono essere in un primo momento di minoranza, successivamente possono diventare di maggioranza tranquillamente. La gente deve lavorare di più e guardarsi meno allo specchio.


Secondo lei, quindi, il partito è molto unito?
In questa fase è molto unito e coeso. Qualche malcontento ci sarà pure, che deriva comunque da delle aspirazioni personali che magari non sono state soddisfatte. In questa città c’è una sorta di contrattazione costante: chi sta fuori vorrebbe stare dentro, e per questo magari si tende a parlare male.




In prospettiva…



Come d’incanto, la debolissima e sconclusionata opposizione – un misto di democristiani incalliti e consiglieri pseudo-finto-indipendenti – le chiede, in un coro sempre più forte ed intonato, che lei rassegni le dimissioni e rimetta il mandato nelle mani degli elettori. Ha mai pensato di fare un gesto simile, che a mio parere sarebbe sacrosanto, visto quello che sta accadendo in questi convulsi e indecorosi mesi?
Assolutamente no! Credo che la maggioranza procederà unita con qualche visione diversa fino a quando lo riterremo opportuno, che io spero fino alla scadenza naturale della legislatura, con risultati per la città molto, ma molto importanti.


Un’ultima domanda, sindaco: in questa prima fase della sua legislatura ha avuta la possibilità di conoscere, in maniera diretta, la popolazione sangiovannese: aspettative, delusioni, richieste sono state tra i suoi principali pensieri. Come giudica la nostra cittadinanza, da sempre interessata all’interesse ‘particulare’, per dirla con Giucciardini, che non a quello collettivo, generale?
Che la cittadinanza si interessi molto di più alle questioni di portata generale e agli interessi collettivi e che chieda la sindaco, per l’appunto, più questi aspetti che quelli di natura personale. Noi come istituzioni dobbiamo fare la nostra parte, ma, al contempo, i cittadini devono contribuire affinché questa crescita avvenga.