I ragazzi si spossano, si logorano, invecchiano, corrotti dai loro falsi amici. Quando la loro ribellione si esaurisce, come accade a tutte le ribellioni, cosa posseggono? Dei brandelli di ideologia, delle parole ripetute, degli slogan funerari ed appassiti, che abbandonano come detriti in un angolo della loro stanza. Sotto questa crosta, la loro esistenza interiore non si è sviluppata: l’infanzia è morta, senza sciogliersi nell’età matura; e ora stanno lì passivamente, né giovani né vecchi, né bambini né adulti, col volto inutilmente serio, col capo prono e chino, senza slancio, né desiderio di vivere.
(Pietro Citati)
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La cronaca nera, di solito, accende i suoi riflettori, luminosi e accecanti, solo quando avviene un fatto, un episodio degni di essere menzionati. In questi giorni, il circuito mass-mediatico locale ha fatto flop: la morte di un uomo (36 anni) per overdose, da anni attanagliato da questo problema, non ha fatto scandalo e, giornalisticamente parlando, notizia.
Mi vengono, in questo caso, alla mente altre morti eccellenti: tutte accompagnate da lacrime, cortei funebri, applausi (vizio tipicamente italico) e lunghi discorsi elogiativi delle persone – ahinoi – scomparse. Ciò che mi ha colpito, in questo frangente, sono stati l’assoluta indifferenza e il totale menefreghismo della città verso una morte. Una morte proletaria, bollata dalla gente come inevitabile, cercata.
Mi vengono spontanee delle domande, allora: esistono morti di serie A e quelle di serie B?
E’ giusto far finta di niente quando un evento del genere non ci tocca direttamente?
Ci siamo mai chiesti del perché questo nostro concittadino, che tutti definiscono sconosciuto, anonimo, “abbracciasse” la causa della droga per trovare alleviamento e speranza di risorgimento dal dolore e dalla sofferenza interiori?
Questo tragico e funesto evento umano, porta alla ribalta uno dei più gravi e distruttivi problemi che la città presenti: il dilagare del fenomeno della droga. Una terribile piaga sociale che, anno dopo anno, sta mietendo vittime e, nei casi migliori, disperati alla ricerca di un’identità e immagine perdute e che, molto probabilmente, non riusciranno più a recuperare; una macchia indelebile rimarrà nei loro fragili cuori; intere famiglie si scoprono, davanti all’enormità del problema, indifese o, meglio, incapaci, di affrontare questo maligno cancro.
Osservando la nostra realtà sempre con occhio critico e distaccato, penso che, nel promontorio del Gargano, San Giovanni Rotondo sia la città che detiene un triste primato: l’uso aberrante e massiccio di sostanze stupefacenti. Un primato che molti fingono di non vedere. Un primato che nessuno, dico nessuno!, ha seriamente intenzione di affrontare. Occorrerebbe, in effetti, drasticità, serietà e intransigenza che non sono affatto presenti, in generale, nel cittadino sangiovannese.
Una droga, dunque, che scorre in grosse quantità, una droga che si disperde in mille rivoli, una droga che “viaggia” impunita, una droga – ed è questa la grande differenza rispetto ai decenni passati – diventata interclassista, di massa, dove le classi borghese e proletaria si fondono e mimetizzano come tante viscide e silenziose lucertole. Lucertole appiccicose e velenose.
Un tempo ci si “accontentava” della marijuana, dell’hashish; oggi, a ben guardare, tutto ciò non basta più. La cocaina è diventata lo status symbol del nuovo millennio. Una moda da perseguire a tutti i costi, pena l’esclusione dalle persone e dai posti che contano.
Disgustasti dal mondo, tutti a cercare di vivere fuori di sé, coltivare un proprio doppio, quel Mr. Hyde che Robert Louis Stevenson pensò come doppio cocainomane del Dr Jekyll.
Sangiovannesi dalla doppia morale: belli e puliti di giorno; tenebrosi, senza troppe inibizioni di notte. Giovani in fuga dallo stress, dalla depressione, dalla noia, dai problemi quotidiani. Giovani che cercano di correre verso l’infinito.
Eric Clapton, genio della chitarra e sregolatezza negli anni giovanili, cantava: “Quando il tuo giorno è finito e vuoi ancora correre: cocaina”.
Una soluzione, la cocaina, che sembra sia diventata il “caballero dalla triste figura”, una soluzione epocale alla nostra malinconia. Pusher e consumatori uniti da un legame che appare indistruttibile. Per cosa? Per uno sballo fuorviante. Per uno sballo che, dopo l’inevitabile euforia, provoca danni, fisici e morali, a iosa. È questo il prezzo che si deve pagare per partecipare al grande rito collettivo, a cui nessuno, grande o piccino non importa, rinuncia. Un rito collettivo che raggiunge il suo apogeo il sabato: giorno dove tutto è concesso anche perché nei restanti giorni ci si rintana in casa nell’attesa ansiosa e disperata che arrivi il grande giorno. Al diavolo tutto il resto! Quale atteggiamento devono assumere i ragazzi di questa comunità se la città stessa si presenta ai loro occhi, incolori e tenebrosi, sena anima, incapace, tra l’altro, di trasmettere emozioni e sentimenti?
È il frutto del grande benessere? Probabile. Si ha tutto nella vita, ma forse ci si dimentica che il grande assente dei nostri moribondi tempi è l’amore! Amore per noi stessi, innanzitutto: per il nostro corpo e per la nostra coscienza. E l’amore, inoltre, per il prossimo: in un mondo tutto dedito e concentrato a fare profitto – e San Giovanni Rotondo rispecchia in toto questo modo di vivere e agire – l’indifferenza la fa da padrone, senza dimenticare il cinismo.
Giovani e genitori uniti da un falso perbenismo; generazioni a confronto che, a ben guardare, appaiono confuse e stordite, lontane anni luce l’una dall’altra; generazioni che, a causa della troppa indifferenza che aleggia nelle mura di casa, non si capiscono più, dove l’unico collante che tiene unito un nucleo famigliare sembra essere il danaro, questo maledetto dio danaro che tanti danni sta cagionando alla moralità di tanti sangiovannesi.
Un’indifferenza che, anzi, contribuisce ad alimentare le forze maligne e cancerose che solo una città sana, integerrima può curare. Metastasi che si propagano in maniera indisturbata, dove chi cerca di comportarsi in maniera retta viene visto come un “diverso”. Una “diversità” che fa a pugni con la crescente intolleranza dei nostri giovani, che ti guardano con l’occhio infelice e rabbioso. Giovani conformisti che parlano, si vestono, camminano, ragionano allo stesso modo. Un conformismo che solo all’apparenza si presenta affabile e moderato, ma che in profondità ha nel suo Dna la ferocia e l’aggressività, tipiche dei nostri tempi. Ragazzi amorfi, che non si meravigliano più di fronte a niente; ragazzi già saturi, nauseati, stanchi di vivere, come se il tempo avesse già bruciato tutte le tappe; ragazzi senza più una prospettiva sicura, dovuta anche all’incertezza dei nostri maledetti tempi; ragazzi che hanno perso quell’ingenuità e quell’altruismo che un tempo erano connaturati nell’animo degli adolescenti; ragazzi che bruciano le tappe e che all’età di diciotto anni pensano di aver già percorso l’intero cammino della vita; e quando la depressione, come una appiccicosa medusa, diventa un diritto, quando uno si guarda attorno e non vede niente o nessuno che lo ispiri, quando il mondo sembra scivolare via in una gora di ottusità e di grettezza materialista. Non ci sono più ideali, più fedi, non ci sono più sogni. Non c’è più niente di grande in cui credere; non un maestro cui rifarsi.
Si tratta, insisto, della perdita dei valori di una intera cultura: valori che però non sono stati sostituiti da quelli di una nuova cultura (a meno che non ci debba “adattare”, come del resto sarebbe tragicamente corretto, a considerare una cultura il consumismo).
Un intellettuale che meglio di chiunque altro ha saputo addentrarsi nelle latebre più oscure della realtà giovanile è stato Pasolini che, a proposito di ciò, ha scritto parole che io trasferisco alla nostra città: “I giovani non hanno espressione alcuna: sono l’ambiguità fatta carne. I loro occhi sfuggono, il loro pensiero perpetuamente altrove. Essi non hanno nessuna luce negli occhi: i lineamenti sono lineamenti contraffatti di automi, senza che niente di personale li caratterizzi da dentro. La stereotipia li rende infidi. Il loro silenzio può precedere una tiepida domanda di aiuto o può precedere una coltellata. Essi non hanno più la padronanza dei loro atti. Non sanno bene qual è la distanza tra causa ed effetto”. E qual è, a proposito, la cultura che i ragazzi di questa comunità tendono a diffondere e a difendere, se non quella materialistica e abietta di fare soldi, girare con auto lussuosissime, vestire con abiti firmatissimi e usare un linguaggio che, il più delle volte, si trasforma in urla gutturali?
Una città, la nostra, che ha preso, ormai da anni, il peggio della metropoli; una città che ha smarrito e distrutto il suo già delicato tessuto sociale. Il sindaco Salvatore Mangiacotti, tempo fa, disse che si sarebbe adoperato affinché questa piaga (non dimentichiamoci dell’alcol) venisse debellata. Come è possibile – mi chiedo – che ciò avvenga se gli altri responsabili di questo degrado, oltre ai già citati giovani, sono gli adulti, i nostri genitori quindi, e le forze dell’ordine locali? Siamo proprio sicuri che i diretti interessati siano realmente intenti ad affrontare tutto ciò? E con quali strumenti si intende combattere questo pesantissimo fardello? Questo nessuno lo sa!
Voglio partire, in questo caso, visto che li ho citati e tirati in ballo, proprio dai nostri genitori: da tempo li osservo, li seguo, seppure discretamente, ci parlo e mi accorgo subito di un elemento fondamentale: che non hanno i mezzi, colpevolmente, per fronteggiare una situazione che sembra sfuggirgli di mano. La famiglia era, un tempo, il punto di riferimento per ogni ragazzo: si tornava a casa, si discuteva e usciva insieme. Un luogo, anche fisico, dove le incertezze e le ansie dei figli venivano seriamente e concretamente affrontate e, in molti casi, risolte.
Un punto di riferimento che, a quanto pare, è diventato il luogo dell’abbandono, del laissez-faire e della connivenza; genitori troppo tolleranti, assenti, che trattano i figli non più come essere umani degni di essere amati, ascoltati, seguiti, bensì come un’incombenza.
Un “fastidio” che il più delle volte viene relegato ai nostri nonni, un tempo perle di saggezza e mitezza. Come ha scritto Giorgio Bocca, oggi “non esiste più la baldanza giovanile né tanto meno la saggezza degli anziani”. Genitori abbacinati dalle tante distrazioni che il mondo consumistico riserva loro: tentazioni e, perché non dirlo?, perversioni di ogni genere stanno, oramai, corrodendo ogni valore morale. Il sempre illuminato e tagliente Pietro Citati ha scritto che “oggi non ci sono più né padri né madri. C’è qualche fratello maggiore o qualche sorella maggiore, che con dolcezza imita i gesti del padre o della madre. No ci sono più leggi. Ci sono soltanto delle leggi personali: o dei simulacri di leggi, inventati giorno per giorno dalla società e dalla televisione, che aumentano l’inquietudine. Così nessuno può meravigliarsi se, a volte, nasca in molti una specie di nostalgia, o di desiderio per u tempo dove padri e madri giganteschi vegliavano sulla vita”.
In occasione di un convegno organizzato per discutere delle problematiche giovanili presenti nella nostra città, la cosa più sorprendente ed evidente è stata l’assenza dei nostri padri, un’assenza, che a parer mio, ha pesato non solo sulla qualità del convegno ma anche sulla moralità stessa dei ragazzi sangiovannesi. La presenza dei nostri padri avrebbe aiutato, e non poco, ad elevare la qualità del confronto, un confronto, ormai, troppo spesso dimenticato volutamente, relegato nei più oscuri anfratti dell’animo umano. Quali sono, allora, le colpe dei nostri genitori? Cosa potrebbero fare per preservare il capitale umano più importante che esista, ossia i ragazzi? Che battano un colpo, questi cinquantenni addormentati e vigliacchi!
Chi, a parer mio, merita una condanna, una condanna senza appello sono, inoltre, le forze dell’ordine. San Giovanni Rotondo, da anni, viene definita un’oasi nel deserto, dove la pace e la legalità regnano indisturbate. Niente di tutto questo! Una pace fintamente costruita, artefatta, che si poggia su fondamenta friabili: se scavassimo o spolverassimo la superficiale crosta, ci accorgeremmo di quante vie sotterranee e impervie vi sono al di là delle solite apparenze.
È mai possibile che nessuno si accorga di quanta droga giri impunita nei nostri vicoli e vicoletti? È mai possibile che in una città come la nostra, dove i punti nevralgici sono comunque limitati rispetto ad una grande città, nessuno riesca ad individuare i grandi responsabili di questo sporco “traffico”?
Quali difficoltà incontrano quelli che dovrebbero tutelare il relativo ordine pubblico di San Giovanni? Prima di mettere le manette ai tanti pesci piccoli, non sarebbe più opportuno e giusto scalare la piramide di questa struttura malavitosa e raggiungere la punta di questa oscura gerarchia verticistica che il più delle volte si presenta in abito elegante e lussuoso, con lo scopo precipuo di depistare le già scarse indagini su questo riprovevole reato?
Quanti occhi malavitosi, criminali cadono su una città come la nostra che, con un’attrazione turistica, monetaria e politica, almeno nel Sud, non ha eguali? Con quali mezzi, allora, si fronteggiano determinate storture? È un problema di mezzi (intendo soprattutto uomini), di intelligence o, più prosaicamente, di volontà?
Prima che il cinismo, l’indifferenza, l’ingordigia sconfiggano definitivamente l’anello debole di questa perfida società sangiovannese, sarebbe ora che ciascuno cerchi di portare il suo piccolo, ma fondamentale, contributo. Prevenzione, repressione, investimenti in opere di interesse pubblico possono essere i primi passi, se attuati con celerità e senza fini perversi e materialistici, verso la risoluzione, almeno parziale, di questi grandi mali che ho cercato di evidenziare. Solo puntando decisamente sulle nuove generazione che un paese, che vuol definirsi civile e moderno, può veramente rinascere, dopo anni di grande buio, di un buio pesto e infido.